Nulla è sicuro come la morte. In effetti si sperperano così tanto tempo ed energie per rendere la propria esistenza più sicura sotto ogni aspetto; ma avete mai pensato allora al suicidio? Oggi giorno la tecnologia dà più sicurezza di una madre affettuosa e di un padre premuroso. Ha infine distaccato l’individuo dal mondo. Con la promessa dell’onnipotenza ne ha invece smorzato il potere – la possibilità di fare e di agire da sé. Ci vuole uno sforzo non indifferente, un vero e proprio lavoro, per rimettersi in relazione con i propri sensi – per provare anche solo un piacere che non sia stordimento o divertimento. Quell’universo, il dominio dell’azione e della scelta, la morale, sembra reciso in maniera definitiva – tant’è che per agire veramente occorre quasi per forza uscire dagli schemi e dal flusso quotidiano.
Recuperare l’uso dei sensi può risultare oggi quanto mai difficile. Come recuperare un tesoro sepolto nel mare. Resta sempre ben celato. D’altro canto non è da tutti tuffarsi e in apnea cercare di scoperchiare il forziere. Oggi la sicurezza è un mondo separato, a cui si accede tramite la tecnologia. Quest’ultima depotenzia l’individuo e tutto il suo corpo. Non tollera l’errore, la lentezza, la fatica: è efficienza pura. Facilita i compiti e le funzioni – e tutto a questo mondo si dà sotto forma di compiti e funzioni. Predispone ogni cosa a portata di mano. La mano può ancora fare qualcosa? Quasi nulla. Il piede può ancora correre? Non senza un tapis roulant o il selciato ben asfaltato. Il corpo ha perso qualche facoltà? Praticamente tutte. Ma non gliene si voglia, ha guadagnato tutto in sicurezza. Come un neonato in culla ha ora solo bisogno di poppare, di piangere e poppare. Cazzo, era appena uscito dalla minorità, quest’infante, che già vien gettato in un altro e più assurdo stato di imbecillità. Ma si può? Si può inondare l’esistenza con tutti i dispositivi e le reti e non sentire al contempo la più grande e assillante mancanza? Del possesso di sé. In effetti questo mio particolare dominio ce l’ho davvero tra le mani se posso dare un pugno e ricevere uno schiaffo, prendere per mano e avere in cambio un dono. Ma cosa posso fare senza mani, senza piedi, senza lingua e senz’occhi, ora che tutti i miei sensi sono deboli e appannati? L’uomo che non piange non sa niente di sé. Usa gli occhi solo per sbirciare, ma il suo sguardo è cieco. Usa la bocca solo per ammutolire. E come dargli torto? Non ha più molto da esprimere. Allora il bisogno di sicurezza che l’uomo ha non può essere soddisfatto con la tecnologia.
La lingua si muove, certo, ma per cosa? Può discutere di tutto a questo mondo. Dell’ineguaglianza, della corruzione, del razzismo, delle devastazioni ambientali, del capitalismo, ma c’è una cosa che resta indiscutibile, verso cui tutti i partiti di qualsiasi schieramento sono dal primo all’ultimo unanimi e concordi, ed è proprio la tecnologia con il suo avanzamento. È indiscutibile, ha già irretito tutti. È diventata un dato naturale: ricerca e progresso. E le due tendenze apparentemente disunite, se non proprio antitetiche, cioè quella del progresso e quella della reazione, viaggiano di pari passo. La società più progressista e più avanzata produce i movimenti più reazionari che possiamo immaginare. In certe occasioni si è detto che il capitalismo, questo grande demiurgo, si serve dell’uno (il progresso) o dell’altra (la reazione) indifferentemente per sostanziare i propri progetti – senza badare se l’inconveniente residuo siano le macchie di sangue in piazza oppure il fumo delle ciminiere per aria. È vero, in parte. Però la sicurezza, offerta dal progresso come un privilegio, è difesa armi in pugno dalla reazione. E perché mai la tecnologia andrebbe di pari passo con la reazione? Perché conduce l’individuo nel più privato dei mondi. Quello da cui non osa uscire. Basta alzare lo sguardo tra una fermata e l’altra – per essere certi che ciò sta già avvenendo – e contare quanti pendono dai loro schermi. Allora scopro che il nostro bisogno di sicurezza è malato.
Io stesso sono a caccia di sicurezza. E lo sono come un baleniere è a caccia di capodogli. Non appena vedo lo sfiato al largo, getto l’arpione. Poi lo traggo a me e vedo che invece dell’enorme balena, la punta si è conficcata tra i ghiacci. Cosa tengo tra le mani? Solo la catena. Mi sono gettato con tutti i quattrini in mano sul primo mercante che sbraitava. Che cos’è la tecnologia allora se non la risposta più facile e immediata al nostro bisogno di essere rassicurati? Su dove andare. Cosa acquistare. Cosa mangiare. Cosa fare e come farlo. Come riposare. Allora accumulo comodità e rassicurazioni. E ciò fornisce una leva delle più potenti per proteggere questa mia tana, finanche con le unghie. Sarei disposto a indicibili bassezze, se qualcuno venisse alla mia tana, magari senza bussare, e cercasse di sottrarmi quelle rassicurazioni di cui ormai non posso più fare a meno. Occorrerà scacciarlo, dapprincipio, con gli steccati, con una siepe di lauro o di cipresso, con del filo spinato. Vi affiggerò un vessillo: “Qui i buoni”, fuori i cattivi. Non posso più cedere nulla senza cedere anche qualcosa di me stesso. Sono ora totalmente a disposizione di queste mie rassicurazioni.
Meglio è rintanarsi dove non si può subire l’aggressione del mondo esterno. Gli steccati e il filo spinato, per ora, andranno bene. Dovrò pur difendere la mia tana da chi si affaccia al mondo! Appunto, che fine hanno fatto tutti quelli che ho depredato per le mie comodità e la mia sicurezza, e la loro stirpe ormai condannata? S’affacciano. Già, ma i loro volti sono neri. Non avevo mai visto nulla di simile. Saranno mica incazzati?
Già sorge un istinto tra i più fetenti – come se, dietro la scorta dell’eterna prudenza, il corpo fosse in astinenza della sensazione immediata. M’avvalgo di tutto quanto mi è dato per proteggermi. Inviperisco. Sento già laffuori i latrati di chi è rimasto nella selva. Annusano il tepore della mia tana. Mi tocca occuparmi della mia soglia, sorvegliarla più di quanto non avessi mai fatto, a costo di lasciar spegnere il fuoco dentro. Il nostro bisogno di sicurezza non può essere curato con l’isolamento.
Viviamo nel progresso. Ne siamo immersi completamente. Da affogare. Vorremmo nuotare fino alla boa, ma abbiamo perso la forza delle braccia. Qui la tecnologia mente: si presenta come la migliore amica, quella che strappa tutte le altre amicizie. Prima il contatto faccia a faccia, poi la conversazione. Prima la stretta di mano, poi la carezza. E ad una ad una si libera di tutte le facoltà. Come la lancetta inesorabile dei secondi, pezzo per pezzo, si prende il quadrante. Ci toglie il tempo, non ne abbiamo mai abbastanza. Ci toglie lo spazio, siamo sempre troppo stretti. Così la capacità e la voglia di esplorare e sondare tutte quante le pieghe della vita poco a poco vengono meno. Eppure anch’io cado nel tranello: quando vado a pesca con la fiocina, sono tentato di usare la rete: qualcosa prenderò. E ciò mi rassicura. Vorrei un fegato incontenibile per non gettarmi nelle braccia del nemico alla prima promessa di grazia, al primo incentivo materiale – lo riconosco. (Eppure ciò non può essere una lotta sostenuta soltanto dal singolo. Perché allo stesso modo riconosco che il nemico non è il singolo dispositivo, ma il loro inestricabile insieme).
A volte mi convinco di non averne proprio di fegato: ce ne vorrebbe uno grande assai per assaporare un piacere diverso da quello che si può comprare alla bancarella del mercato. Perché anche questa è una rassicurazione, e delle più magre.
Sicurezza, dici? Sì, pace delle membra, allentamento dell’attenzione. La maniera fisica dell’ameba. Eppure questo stato di improbità risveglia facilmente altre perniciose attenzioni. Come l’eccessiva tristezza attiva un’ultima volta i muscoli per un sol colpo. Certo, posso ancora sperimentare del riparato dolore o della cauta gioia; sì, ma quanta? Misurata. Questa pace non vuol proprio trovare il suo disincanto. Si alimenta di una rassicurazione permanente. E chi la prova è portato a innalzare le più alte barriere e con rigore sancire un dentro e un fuori. Sicurezza, allora, cos’è? Una parola d’ordine; un concetto chiave; una reazione nervosa; una reazione con la R maiuscola.
Osservo il filamento di tungsteno resistente inondato dalle sessanta watt irradiare luce in questa stanza e sicurezza. Poi una notizia dal lontano Giappone – eppure oggi come mai così vicino – mi ricorda quanto dietro la luce degli ormai inevitabili conforti sia proiettata la cinese ombra d’un mostro gigante: la catastrofe. Allora riconosco che la sicurezza che l’uomo cerca non si può trovare nelle sue opere smisurate.
Anche quando vien voglia di staccare la spina, risulta però impossibile. Un genitore può ancora sculacciare il figlio. Ma ciò che gli inventori di macchine sanno – e lo sanno con l’incoscienza del timoniere ubriaco – è che il legame è spezzato, il vincolo reciso: non possono più schiaffeggiare il bastardo. Non possono farlo rinsavire.
Se dovessi dipingere l’attuale situazione, userei l’acquerello: raccolgo unicamente sensazioni slavate. Ma la cornice è forte, di bronzo. Progresso e reazione. L’uno impressiona la tela, l’altro la custodisce. La tana nella selva. Il cerchio di fuoco che tiene lontani i molti serpenti. Il nostro bisogno di sicurezza è un carezzevole inganno. Lascia per terra numerosi i dubbi. La puzza di carogna però ci perseguita. Ci ricorda tutto ciò che abbiamo tramortito, e che ora ci manca.
E mentre mi ritaglio dalla natura gli spazi più angusti, una stanza dietro un oblò, un sottomarino per navigare anche senza ossigeno, trovo però un nemico dietro l’angolo: la solitudine. E quanto la tecnologia appaia un sollievo, una medicina, contro il mal di solitudine, tutti ne abbiamo un’idea. Colmare il grande vuoto però così non si può.
“La rete unisce, non divide”, continua a salmodiare la bocca dello stolto. Ma qual è la sostanza di questa unione, la sua solidità? La conoscenza non intacca la superficie. I patti cambiano. Le alleanze non durano. Facilmente puoi cambiare le carte in tavola, nonostante la chiarezza degli accordi. Con ancor più facilità puoi mandare all’aria una relazione, nonostante le esperienze sedimentate. D’altronde i contatti si enumerano. Le amicizie si danno e si tolgono. La vanità sola resta fissa.
Nonostante tutte queste rassicurazioni, una domanda mi batte in testa: che fine ha fatto la mia, la nostra, libertà?
Senza un filo di memoria non posso avanzare. Infatti ricordo, da minuscola goccia quale sono (anche dall’acqua piovana possiamo imparare), che attraverso la grondaia giungo di sicuro al suolo. Ma ciò che non scorderò mai, perché è nuovo e meraviglioso ogni volta che mi si presenta con quella sua forza sconsiderata, è l’acquazzone estivo che se ne infischia del sole dell’attimo prima, è l’arcobaleno e la futile ricerca della sua pentola. Tutto ciò avviene al di fuori dei percorsi incanalati e degli schemi e dei loro ambiti di certezza. E resta vivo e ben presente nella mia mente.
Allora la libertà si direbbe un azzardo. Perciò talvolta occorre una pressione all’eccesso per recuperare l’equilibrio rovinato. (L’equilibrio è la giustizia; la giustizia è l’equilibrio). Già, un’azione, una manovra senza misura, di quelle che fanno tremare i polsi (ma che l’individuo, nel suo corpo e nel suo carattere, sia in grado di sostenere). L’importante è che questo smisurato potenziale che ho messo a nudo non si cristallizzi in cariche o processi che d’ora in poi resteranno fuori dalla mia portata. Anche con un tale azzardo però non mi libero della sola cosa sicura (del mutamento definitivo che mi rincorre).
Di una cosa però sono certo: la sola forma di sicurezza che mi avvantaggia nei confronti della fine, la trovo negli altri, in chi mi sta in prossimità. Questa peculiare inclinazione, la solidarietà (che trovo riflessa nelle pupille di ognuno di voi), mi offre un’integrità inscalfibile. Un noi (in parte ancora da costruire) in luogo di un io: questa è la sola sicurezza che posso esprimere al di là della mia morte particolare. E questo è anche il solo al di là per me concepibile.
G.B.
Tratto dalla rivista anarchica “i giorni e le notti”, n.8, ottobre 2018