Al ministero della Verità
A nessuna idea viene attribuito un consenso tanto unanime quanto alla democrazia.Nella storia più o meno recente dell’umanità, non esiste concetto, ordinamento, realtà politica o sociale che non abbia conosciuto attacchi anche roventi. La religione, le banche, il denaro, il capitalismo, il colonialismo, il fascismo, il comunismo, persino la proprietà privata vengono discussi e criticati, nei bar come nelle università. La democrazia, viceversa, è l’idea che conosce meno critiche.
Chi la rigetta viene tacciato ipso facto di essere un intollerante, un violento, un fascista. «Io, per quanto mi ricordo, sono sempre stato democratico. Non per scelta, per nascita» ironizzava un brillante cantautore italiano. Proprio così. Non si sceglie di essere democratici, lo si dà per scontato. Da almeno un secolo la democrazia è divenuta orizzonte di senso dell’epoca, come la cristianità nell’Europa medievale. Vi si appellano (quasi) tutti, dagli stalinisti ai fascisti. Nell’odierno Ministero della Verità, laddove è scritto che la libertà è schiavitù e la guerra è pace, si proclama anche che democrazia è libertà e giustizia e che chi non è democratico è un mostro.
Ma quando lo spettacolo democratico si incrina; quando ci ritroviamo umiliati a scuola, sfruttati sul lavoro, bastonati in piazza, massacrati in caserma, spiati al telefono, perquisiti nelle nostre case, ammazzati in carcere; quando giunge alle nostre orecchie che migliaia di persone muoiono avvelenate dagli scarti industriali, sotto un bombardamento o in mezzo al mare, il bravo cittadino democratico non pensa che questa è la democrazia in azione, ma al contrario che c’è un deficit di democrazia. Sotto il regime democratico, se tutto sembra andar bene è perché c’è la democrazia, quando qualcosa va storto è perché la democrazia viene a mancare. Ragionamento tautologico tipico di tutte le ideologie autoritarie. Per questo, più che criticare per l’ennesima volta gli inevitabili effetti del sistema democratico, si tratta di coglierne l’essenza.
Decidere
Ogni collettività umana ha necessità di prendere delle decisioni. Per chiarire il problema, faremo un esempio semplice. Immaginiamo che un gruppo di amici debba decidere come passare la serata: se guardare un film a casa, andare al ristorante o al cinema ecc. Secondo il metodo oligarchico, a decidere saranno uno o pochi, i più carismatici o i più prepotenti. Secondo il metodo democratico, si metteranno ai voti due o tre alternative, e vincerà la maggioranza. Per il senso comune, non ci sarebbe scampo: o decidono i pochi o decidono i molti. Ma, a pensarci bene, questo stride non poco con la nostra esperienza quotidiana. Il gruppo non potrebbe dividersi in due o più sottogruppi? O al contrario raggiungere un’unanimità di intenti, attraverso una discussione attenta e realmente partecipata, in cui si vaglino tutte le alternative e si ricerchi – per quanto è possibile – la soddisfazione di tutti e di ciascuno? Magari questa unanimità non sarebbe perfetta, magari alla fine prevarrebbe comunque l’opinione della maggioranza, ma questa verrebbe raggiunta attraverso un processo qualitativamente diverso e soprattutto la minoranza si adeguerebbe alla maggioranza perché lo vuole (nell’esempio specifico, per il piacere di trascorrere una serata con tutti i propri amici). Allo stesso modo, sarebbe palesemente assurdo impedire a chi non si riconosce nella decisione presa di andarsene a casa o di fare altro. La differenza tra la democrazia e la libertà sta tutta qui: la prima non prevede che ci si possa dividere e riaggregare in forme diverse, molteplici e insieme responsabili. La seconda si fonda tutta sul gioco – a volte più aperto al possibile, in altri casi più vincolato alla necessità – di dividersi e unirsi senza imposizioni.
Genealogia di un inganno
La democrazia non è una condizione “naturale” dell’essere umano, faticosamente (ri)conquistata dopo una lunga lotta contro oscurantismi, monarchie e dittature. Al contrario, essa è un prodotto storico. Nata nella Grecia antica di 2500 anni fa, ha ricominciato a muovere i suoi passi a seguito delle Rivoluzioni americana e poi francese, fino a diventare ideologia pressoché egemone dopo la seconda guerra mondiale. Uno sguardo alle sue origini ci aiuterà a chiarirci le idee.
Nell’Atene di Pericle, durante la seconda metà del V secolo a.C., il superamento del sistema censitario (chi più possiede ha maggiore diritto di deliberazione) fissò una volta per sempre i princìpi-cardine dell’ordinamento democratico: diritto di voto uguale per tutti; per ogni testa, un voto; vince la decisione che ottiene la maggioranza dei consensi. Ciò che ci si dimentica di sottolineare è che il potere di quei “tutti”, di quelle migliaia di “uomini liberi” che discutevano nell’ agorà e eleggevano i propri rappresentanti nella boulè, poggiava sull’oppressione di altrettante migliaia di donne, sull’esclusione dalle decisioni degli stranieri residenti e soprattutto sulla schiavitù di almeno 100.000 iloti. L’età di Pericle fu anche il periodo di massima aggressività dell’imperialismo ateniese, sfociato nella nota vicenda del guerra del Peloponneso attorno al controllo delle colonie elleniche in Asia minore e in Italia meridionale. Da questo punto di vista, l’etimo della parola “democrazia” – potere del popolo – è indicativo. Essa si compone di due lemmi, demos (popolo) e kratos (potere). La parola greca demos, però, non indicava affatto la totalità della popolazione, ma solo quella parte che aveva il diritto di portare armi e quindi partecipare alla guerra. Quanto al secondo lemma, kratos, esso significa potere nel senso di esercizio della forza. Per indicare la popolazione in senso generico, infatti, la lingua greca possedeva la parola ochlos, traducibile più o meno come “plebaglia” (e infatti Polibio, nelle Storie, parla di oclocrazia come degenerazione della democrazia), mentre il potere come ordinamento, deliberazione, comando è espresso maggiormente dalla parola arché. Possiamo quindi comprendere quale fosse il reale obiettivo dell’ideologia democratica periclea: non, come si può pensare ingenuamente, favorire l’accesso alle decisioni della parte più umile della popolazione, ma piuttosto chiamarla a raccolta in vista della guerra, fornendo ad essa l’illusione di essere direttamente partecipe e di combattere per il proprio interesse. Il risultato furono quasi trent’anni di conflitto, una pestilenza che decimò la gente dell’Attica e l’instaurazione d’una sanguinaria dittatura filo-spartana. Prodigi del “potere del popolo”.
Un “patto” mai sottoscritto
Come ogni ideologia autoritaria, la democrazia si fonda sulla coazione all’unione, un “patto” di condivisione delle proprie sorti che nessuno ha mai sottoscritto, ma al quale tutti si trovano vincolati. Essa traccia una linea di demarcazione netta tra chi è cittadino dello Stato e chi non lo è. Solo i nativi di Atene potevano e dovevano deliberare: se gli stranieri di stirpe greca (metèci) erano semplicemente esclusi dalle decisioni, ma godevano comunque di diritti, tutti i non-greci (chiamati dispregiativamente barbari) erano considerati poco più che delle cose e resi schiavi. Con la nascita degli Stati moderni, l’autoritarismo democratico non si è mitigato: al contrario, si è aggravato. L’antica società ateniese era infatti segnata dalla disuguaglianza come quella odierna, e questo aveva chiaramente un peso nelle decisioni prese (chi più possiede ha sempre un’influenza maggiore). Allora come oggi, il metodo democratico portava con sé tutti i giochi di potere che ben conosciamo, dai professionisti della parola fino alla corruzione. Ma perlomeno gli antichi ateniesi deliberavano su un territorio circoscritto, attorno a problemi che li riguardavano direttamente e possedevano una certa facoltà di esprimersi senza mediazioni. Il cittadino democratico moderno, viceversa, è inserito fin dalla nascita all’interno di Stati territorialmente estesi, caratterizzati da un controllo e da una burocrazia assieme capillari e centralizzati, che a loro volta fanno parte di compagini statali più vaste (pensiamo anche solo all’Unione Europea). Tutto ciò che può fare è votare dei rappresentanti all’interno d’una casta di professionisti della politica, peraltro sempre più indistinguibili e ributtanti. Conferendo a questi il potere di governare per quattro o cinque anni, senza alcuna possibilità di revocarli e di intervenire sulle decisioni prese, gli individui si ritrovano espropriati di ogni discussione degna di questo nome. Privo di qualsiasi ricaduta significativa sulla realtà, il dibattito democratico si riduce a mera lamentela e vuoto chiacchiericcio. Se il potere si ritrova costretto ad ascoltare “le istanze dal basso”, è la centralizzazione stessa dell’apparato a svuotarle di senso. Quanto alle disuguaglianze sociali, queste sono cresciute a un punto tale che alcune centinaia di capitalisti, banchieri e tecno-burocrati possiedono oggi i tre quarti della ricchezza. I nuovi schiavi riempiono i poli logistici e i campi di pomodori. La crescita dello specialismo tecnico e dell’industria hanno eroso ogni forma di autonomia: non controlliamo neanche l’acqua che beviamo o il cibo che mangiamo. Se la libera agorà non è da nessuna parte, polizie ed eserciti sono dappertutto.
La falsa uguaglianza
Si può essere uguali nel cielo della politica, quando la disuguaglianza regna sulla terra dei rapporti sociali? Che peso può avere il suffragio universale quando alcuni hanno tutto, mentre altri hanno poco o niente? Non è possibile separare il processo decisionale dalle condizioni materiali su cui si esercita. Se pochi hanno il controllo sulle risorse e i mezzi di produzione, mentre molti sono costretti a cedere la propria forza-lavoro, le decisioni prese in merito non potranno che rispondere agli interessi dei primi, mentre i secondi si esprimeranno solo su questioni di dettaglio. Se qualcuno ha il potere di porre le domande, si può dire che queste si risponderanno da sé. Il superamento del potere della “casta” non può realizzarsi attraverso un’astratta “democratizzazione del processo decisionale” (magari con l’ausilio di internet…) ma solo passando da una radicale sovversione dei rapporti sociali.La libertà e l’uguaglianza sono prima di tutto una questione di autonomia. Laddove gli individui non controllano le basi della propria vita materiale (i mezzi di sostentamento e di produzione, le modalità del produrre e la sua finalità), essi non potranno decidere realmente in merito a niente: né le forme dell’abitare né l’organizzazione delle vie di comunicazione, né l’educazione dei bambini né i patti e le alleanze con altri gruppi umani. Riprendendo direttamente in mano la totalità delle proprie condizioni di vita, viceversa, si può cominciare a immaginare un’esistenza in cui le parole “accordo”, “patto” e persino “regola” ricomincino ad acquistare un senso. Che ognuno possa decidere per se stesso, innanzitutto: dove risiedere, come organizzarsi e assieme a chi. Che i patti non siano concepiti come “leggi” – ovvero regole cristalizzate e coercitive – ma come accordi di cui deve rispondere solo chi li ha liberamente sottoscritti. Che non si decida più in base a minoranze o maggioranze astrattamente concepite, ma secondo il criterio dell’armonizzazione e della soddisfazione di tutte le parti in gioco. Se guardiamo alla nostra vita quotidiana, infatti, non sono poi molte le situazioni in cui tra A e B non si può scegliere… C. Se io amo suonare e Tizio vuole riposare, non è così difficile accordarsi sui luoghi e sui momenti che permetteranno ad entrambi di soddisfare le proprie esigenze. L’accentramento che comporta ogni Stato – anche se “federalista” – , al contrario, non può che porre delle alternative secche. La variante di valico, il treno veloce, la riforma del lavoro, o si fanno o non si fanno: “il terzo non si dà”. A decidere in merito, più che il voto degli elettori, saranno le condizioni materiali di vita e la forma della loro riproduzione, nelle mani di alcuni gruppi di potere.
La dis-pedagogia democratica
La funzione della democrazia non è tanto quella di favorire l’intervento degli individui nel processo decisionale, ma fornire loro l’illusione di prendervi parte. In democrazia ci si può incontrare, si può discutere, si possono proporre leggi, si può persino protestare. Si può fare tutto, purché si rispettino le regole democratiche, ovvero purché non si intacchino gli interessi socialmente dominanti: chi lo fa è perseguitato e punito. Donando l’illusione della partecipazione, la democrazia costituisce il più solido e inscalfibile dei regimi: quello che si insinua nella stessa vita interiore dell’individuo, tetanizzando ogni moto di rivolta nel cuore degli oppressi. Se lo Stato è espressione di tutti, se lo Stato siamo noi, se lo Stato sono io, come può essere concepibile la rivolta? È pensabile rivoltarsi contro tutto e tutti? Chi lo fa o lo desidera non può che essere un ragazzino immaturo da rieducare o un pazzo criminale da rinchiudere. Così la democrazia costruisce il più solido, invisibile e tautologico dei conformismi: l’ideologia della “normalità”, che rende la ribellione non solo impraticabile, ma addirittura inconcepibile. Non è certo un caso che il crearsi e il consolidarsi della democrazia abbiano accompagnato lo sviluppo della società di massa, con la sua inerzia della catastrofe. Avvenisse pure la fine del mondo, si potrà sempre discuterne o disinteressarsene, così come si può andare a votare o al mare. A dispetto e allo stesso tempo in forza della sua retorica della partecipazione, la democrazia educa soprattutto all’irresponsabilità, abituandoci a dissociare pensiero e azione: il primo si restringe, riducendosi a pacata opinione, mentre la seconda, quando obbedisce alla coscienza anziché ai dirigenti, è stigmatizzata come incivile prepotenza.
Tutto è cambiato perché niente cambi
Dai tempi dell’Atene antica (ma potremmo fare riferimento anche a tempi molto più recenti) la democrazia è cambiata e assieme non lo è. Con la tenue eccezione del riservismo svizzero, non siamo più da molto tempo “popolo in armi”. Al contrario, il monopolio della forza è sempre più esclusivamente dei pretoriani in uniforme (e un domani, magari, dei loro più stretti collaboratori: a quando l’armamento dei “cittadini attivi”, o dei fascisti? Ma sono scenari ipotetici di cui qui non si può certo discutere). L’ultima parvenza dell’antica “politica del popolo armato” è scomparsa con l’esercito di leva, sostituito dagli eserciti professionali. Con questo, le guerre non hanno certo smesso di esistere, al contrario (e non casualmente) si sono moltiplicate. Anche l’esercizio del voto non sembra più essere spina dorsale della democrazia, visto che tra l’altro non lo è mai stato. Nelle moderne democrazie (Stati Uniti d’America in testa) si vota sempre meno e alle urne può tranquillamente recarsi una minoranza della popolazione, senza che questo cambi assolutamente nulla. In alcuni paesi (particolarmente in Italia) abbiamo assistito per un po’ di anni al “gioco del rimpallo” tra centro-sinistra e centro-destra, con l’elettorato che, eternamente deluso dagli uni, dà il proprio voto agli altri e così via, immagine mobile d’un eterno presente. Anche questo gioco sembra mostrare la corda. I partiti parlamentari offrono programmi talmente tanto simili, e si dividono su questioni talmente marginali, che i loro voti finiscono sempre più spesso in un sostanziale pareggio. Il risultato è, in un numero crescente di democrazie, la formazione di grandi coalizioni come partiti unici de facto, con i loro surrogati spettacolari di correnti interne. La distruzione del pensiero critico e delle idee forti determina l’emersione di uomini forti, versati nel parlare alle pance e alle passioni tristi più che ai cervelli e alle grandi aspirazioni: i nuovi Pericle, Cesare, Napoleone, (i nuovi Hitler?) da talk show televisivo (ogni tanto anche qualche pallida imitazione di Allende, come in Grecia e Spagna). Non più cittadini-elettori, insomma, né cittadini-soldati, ma principalmente cittadini-schiavi e cittadini-consumatori: ecco quanto ci viene richiesto.
E tuttavia, la democrazia non smette di mobilitarci. Se la cambiale della nostra schiavitù ce la fanno firmare in silenzio – come si firma una cambiale, appunto – dalle tribune dei leader si levano alte grida: grida di linciaggio. La retorica della sicurezza ci instilla la paura reciproca e ci spinge a stringerci attorno ai vari centurioni del partito dell’ordine, e ad affiancarli costituendoci in milizie armate di smartphone; la retorica del “decoro” ci intima di tenere puliti i muri del macello, la retorica del “padroni a casa nostra” ci infoia a dare la caccia agli untori che li imbrattano. Eccola, la nuova forma della “partecipazione democratica”: il popolino che spia e la folla che lincia, convinti di trovare in ogni sbirro un amico e in ogni diverso – specie se povero e dalla pelle scura – una minaccia all’agognata “normalità”.
Oggi che l’Ellade s’è fatta mondo, la nuova Attica democratica non desiste dalla sua pretesa d’essere scuola di civiltà : la dottrina dell’esportazione (o della difesa) della democrazia come-modello-di-vita continua a produrre e giustificare le guerre per il controllo delle colonie. La violenza, com’è logico, torna a casa, sotto forma di attentati indiscriminati da una parte e di pogrom reazionari dall’altra, in una spirale che si auto-alimenta. Le potenze statali si guardano sempre più in cagnesco, si fanno guerra – per ora – nelle varie periferie del mondo, in un clima di reciproca e continua provocazione (un test nucleare qui, un tentativo di golpe là).
A quando la prossima guerra del Peloponneso? E quando arriverà la peste ad Atene?
Forse la guerra è già cominciata, forse il contagio è già in corso.
tratto dalla rivista anarchica “I giorni e le notti”, n. 4, giugno 2017